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TARTUFO di Moliere

 

Stefano Mancini non epigono ma cantore del colore.

di Paolo Ferruzzi (ordinario della cattedra di Scenografia Accademia di Belle Arti di Roma)

 

Oh, aver qui una Musa di fuoco che sapesse salire al più luminoso cielo dell'invenzione; un dipintore che rischiari il palcoscenico della fantasia con marionette dipinte che facessero da attori di questa scena grandiosa! Potrebbe mai infatti questa platea immaginata contenere tutti le ipocrisie dell’umana gente, potremmo stipare entro questo o  di legno anche solo una parte delle offese alla Pietà e tali da offendere gli ipocriti che non vogliono accettare il gioco di essere messi in scena con le loro smorfie ? Ma scusateci: come uno sgorbio di cifre serve in breve spazio a rappresentare un milione, così lasciate che noi, semplici zeri in questo gran conto, mettiamo in moto le forze dell’ immaginazione. Colmate col vostro pensiero le nostre lacune; di un colore che vedete fatene mille e createvi un grandioso arcobaleno; se veniamo a parlare di vizi esponiamoli attraverso il riso delle marionette dipinte e niente riprenderà meglio la maggior parte degli uomini che il ritratto dei loro difetti; immaginate Orgone, Dorina, Elmira, Tartuffo vederli realmente muovere sulle tavole del palcoscenico che ne riceve le impronte; è il vostro pensiero che ora deve vestire, come le marionette dipinte, i nostri personaggi e portarli qua e là, saltando interi periodi di tempo, e condensando i fatti di giorni e anni in un volger di clessidra. Allora prendete tutti i colori del più grandioso arcobaleno e avrete i fantasiosi costumi di Stefano Mancini; prendete l’inventiva di tutti i bambini e avrete il mondo di Stefano Mancini, prendete l’immaginario di tutti i poeti, ma proprio tutto l’immaginario, ed entrerete nell’Animo di Stefano Mancini. Ciò detto e con un profondo inchino il capocomico si ritira e si alzi il sipario su le Tartuffe. 

Da Shakespeare a Moliere con ammirazione a Stefano Mancini. 

 

IL PAESE DEGLI UOMINI DI CARTA 

 

“LA SCUOLA DEL SORRISO”

di Gianpiero Dalpozzo (Gallerista)

 

Stefano Mancini, con il suo attuale lavoro dedicato alle favole e alle filastrocche di Gianni Rodari, non procede secondo un disegno lineare, ma si muove attraverso la diversità delle immagini usate, tra pittura e teatro, così la sua produzione non può essere “racconto”ordinato in una successione di temi e di iconografie, si può parlare invece di un catalogo delle ragioni, che elargiscono sostegno, identità e significato, alla sua vita di artista. Un tipo di lavoro che sarebbe piaciuto a Rodari, il quale amava un’arte “ondeggiante, danzante, irridente, fanciullesca” che ci è tuttora molto necessaria per non perdere quella libertà sopra le cose, che la nostra mente esige da noi, non distinguendo chi gioca dal gioco stesso; quindi è anche lo sguardo delle cose che non cercano valori assoluti, bensì vogliono insinuarsi dentro la carne viva del presente. Sono lavori in cui i rapporti sono perfetti, piccoli monumenti surreali che vivono una vita propria di carte, colori e stoffe, che hanno per accento lo stupore dell’uomo coricato, l’equilibrio perfetto del circense, i sospiri rapiti degli innamorati, che ci strappano senza fatica un sorriso. Ciò che l’artista fa emergere dalle sue opere è la luce, questa luce intensa ma non abbagliante, contenuta dentro un graduale sviluppo, una luce che avvolge e penetra cose, che suscita e smorza i rilievi plastici, perchè è quasi un tessuto connettivo tra le toccate di colore. Sembra fatta di echi, riverberi, crepitii, sussurri e sospiri. L’effetto che appare è quello di leggera grazia diffusa. In realtà il gesto, che fruga con piccoli tocchi di colore insistiti, non fa che addensare in uno strato più profondo il senso di leggerezza dell’uomo che intuisce la bellezza delle cose. Nella pittura di Mancini è facile riconoscere strutture che si fanno scopertamente architettoniche; che diventano muro, spazio armonico; allo stesso modo, è facile riconoscere una contrapposizione di elementi linguistici, finito e non finito, compatto e articolato, resistente e fluido; ed un orientamento, infine, della carica espressiva dell’immagine verso il simbolo, l’acqua-la vita, la faccia-l’altra faccia, la maschera della realtà, le cose consumate-il tempo... Mancini è uno di quegli artisti che non ha bisogno di smaniare sul quadro e neppure di provocare uno choc servendosi di strane tecniche visive. Gli oggetti trovati sui mercatini, carte, chincaglierie e tessuti dimenticati dalla gente, per mano dell’artista diventano una porta, un varco di comunicazione attraverso il quale il nostro mondo ordinario diventa favola attraversata da un filo di luce che oscilla tra magico e infantile, un piccolo graffio surrealista di corrispondenze gratuite. Il rapporto di “ricordo-affetto” tra Mancini e Rodari è sottolineato ulteriormente da un’affermazione che Andre Breton fece a suo tempo sullo scrittore: “...Rodari ha contribuito a un rinnovamento della letteratura per l’infanzia con una vasta produzione percorsa da una vena di intelligente comicità, dando spazio ai temi della vita di oggi e sostituendo il tradizionale favolismo magico con personaggi e situazioni surreali...” Le scene rappresentate (parlo propriamente di “scene” perchè hanno palesemente una loro teatralità) sono sospese, congelate nello spazio, il referente onnipresente è l’uomo, o meglio “l’uomo di carta” . Questi micromondi, siano essi dolcemente ricamati, fatti all’uncinetto, oppure di carta o di tessuto, e ancora popolati di “colte citazioni”, generano un sentimento di spaesamento, di mescolanza tra estraneità e familiarità, quotidianità ed enigma, commedia e comicità, spazio elastico e cornice che si risolve infine in un sottile umorismo, il cui sapore è sempre agro-dolce. L’humour astratto, surreale, metafisico del nostro artista sottolinea l’inadeguatezza dell’uomo moderno a convivere con l’odierna società dello spettacolo. Come il gioco, il riso è innanzitutto qualcosa di leggero, di piacevole, di non pericoloso. Qualcosa che ci prende e da cui ci lasciamo prendere senza opporre la resistenza di cui ci armeremmo in una disputa di idee. Siamo perfettamente convinti che tutto questo si presta assai poco ad essere “imparato"

 

 

PERSONAGGI FIABESCHI

 

STEFANO MANCINI

“PERSONAGGI FIABESCHI”

di Cristina Palmieri (Critica d'arte)

 

Stefano Mancini, in questa ultima  mostra,  presenta una selezionata raccolta di opere che  immergono nel suo universo straordinario, un cosmo fiabesco (come si evince dal titolo) in cui ricorrono ambientazioni e personaggi che divengono le maschere di una sua personale “Commedia dell’Arte”.

La levità  è quanto guida l’artista nel costruire questi ideali  scenari, prosceni immaginari in cui la fantasia, sbrigliata, senza limiti di tempo e di spazio, evoca residui di un universo  in cui  la vita quotidiana sembra svolgersi in un eterna “favola”,  in una società cavalleresca all’interno della quale ogni elemento contribuisce a costruire una grammatica della rappresentazione che si richiama alla memoria storico-popolare e all’immaginario collettivo, nel loro più profondo significato simbolico.

Le fiabe, è noto, esprimono in forma elementare ed esemplare qualcosa che ci parla della nostra vita reale e che talvolta abbiamo  difficoltà  a comprendere a livello razionale. Sono  basilari affinché si  sviluppi, nell’infanzia,  un mondo in cui trovare uno spazio sicuro per accettare ed elaborare  i primi conflitti.  Consentono perciò  di riflettere su di sé all’interno di un ambito protetto e strutturato e rappresentano un modello di riferimento per affrontare in modo creativo le prime difficoltà della vita. Costituiscono un viaggio antropologico che narra esperienze umane universali, fatte, ovviamente, di luci come di ombre.

Mancini, moderno cantastorie,  si inventa un teatro nel quale rappresentare, in modo talvolta caricaturale, scene di un eterno poema abitato da dame prosperose in sontuosi costumi e strabilianti acconciature e da cavalieri poeti dell’amor cortese, con grosse tube. Gli elementi che caratterizzano questi personaggi appartengono ad un sistema di “segni” riconoscibile, ad una semantica, appunto, che parla il linguaggio di una tradizione che si snoda attraverso la storia letteraria, come pure pittorica ed illustrativa. L’artista consegna così vita ad una realtà lontana dal quotidiano della società borghese, così poco propensa alla bellezza e  più vicina alla mediocritas. Regala piuttosto atti  di una commedia animata dalla leggerezza, da una incantata allegria, contraddistinta da una avvincente creatività coloristica. L’ambientazione in cui le scene sono raccontate, che immergono lo spettatore in un mondo perfetto fatto di meravigliose ed esemplari architetture storiche (quelle che affiorano, nella commistione e sovrapposizione di stili creata dall’ultimo secolo, come perle nelle nostre città), concorrono a creare quel distanziamento cronologico che ci rende spettatori di un racconto che vorremmo quanto mai presente, ma che avvince proprio perché animato da un concetto di bellezza e perfezione che vivono nella nostra idealità, laddove dimorano anche i sogni e le voci più pure della nostra anima. Il re, che spesso ricorre nelle opere dell’artista, in fondo altro non  personifica che  la nostra individualità, il nostro vero “Io”. Un re indegno è messo a confronto con quello destinato a prendere il suo posto. Ecco quindi l’io reale e l’io ideale messi l’uno di fronte all’altro.  Nei racconti di Mancini, come appunto  nelle fiabe, lo spazio e il tempo sono volutamente dilatati, mai ben definiti. Viene lasciata libertà alla fantasia e si accede ad una dimensione altra, non soggetta a leggi fisiche ma a leggi interiori. Dame e cavalieri, principi e principesse innamorati dell’amore, vivono, con entusiasmo gioioso, l’eterna ricerca dell’alter ego che dona la felicità,  immersi  in queste quinte meravigliose fuori da ogni tempo reale, che – come già ebbi a scrivere – testimoniano la sua passione per le architetture, per la scenografia.  Solo l’arte, letteraria o pittorica che sia, può regalare tale mescolanza di reale e immaginario, andando ad incidere nei sedimenti della nostra memoria e accostando possibile ed impossibile, ordine e caos.

Mancini canta la gioia attraverso un non usuale percorso pittorico, attraverso un segno felice ed allegro, fatto di morbidezza sinuosa. La sua mano avanza, si ferma, arretra su se stessa,  in un piacere quasi grafico, torna sui suoi temi con abilità e maestria, come se il disegno  scaturisse con la stessa immediatezza con cui erompe dalla sua fantasia. Il quadro terminato è un magnifico gioco, quasi che il divertissement appartenesse prima all’autore che allo spettatore. Tecniche e materiali vari si sovrappongono con abilità nel crearlo. L’artista dimostra una padronanza originale nell’accostamento di differenti pratiche e procedure pittoriche. Gli abiti dei personaggi, così come le scenografie in cui essi si muovono, sono impreziositi da ricercati collage, di stoffe o di carte.  I colori sono vivaci, intensi, brillanti.  Si utilizzano tipologie di colori differenti. Sulle carte Stefano  adopera molto i pastelli, che  agevolano anche nell’inserto calligrafico, suo elemento caratteristico che si affianca al disegno come fosse una didascalia.

Con la pittura sembra essere in grado di liberare il mondo dal male e di ottenere la felicità per se stesso e per noi. Le sue opere, infatti,  donano l'evasione in un mondo di totale libertà immaginativa ed immergono in una   dimensione di spontaneità, lontana da complicati intellettualismi, attingendo ad un patrimonio di tradizioni  progressivamente dimenticato. In esse ogni incongruenza umana è sospesa. Pare che Mancini per primo desideri inoltrarsi in una società  lontana e sconosciuta, contraddistinta dal piacere del dialogo, dell’incontro, del viaggio; della necessità di vivere quasi in un eterno pellegrinaggio, specchio dell'inquietudine esistenziale di uomo curioso, in costante tensione nel perseguimento di un proprio autentico ideale universale.

 

 


 

 

 

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